Il Samovar written by Serena De Luca Bosso at Spillwords.com

Il Samovar

Il Samovar

written by: Serena De Luca Bosso

 

Soleva sorbire il tè al buio.
Amava gustarlo ancora rovente, e con quel poco di luce che entrava dai battenti che lasciavano intravedere il profilo della foresta che circondava la sua dimora, poteva scrutare il fumo impalpabile sulla sommità scura e bollente.
Un nero abisso dalla quale beveva sorsi di vespro autunnale, godendo del silenzio della taiga.
Era un rituale sacro alla quale non voleva rinunciare: stare in poltrona a scaldarsi le mani con la tazza fumante, annusando l’odore legnoso delle foglie adagiate sul fondo, sommerse dall’acqua nera, mentre i suoi nervi stanchi si riposavano nel tepore della sua stanza, impregnata del profumo dei libri e del fuoco dormiente dentro il camino.
Le deboli fiamme si riflettevano sull’oggetto che troneggiava nell’ambiente, dove gli occhi spenti del muto pensatore si spostavano momentaneamente quando l’infuso stava per finire.
Era molto geloso del suo samovar. Ricordava vagamente un’urna d’argento, un reliquiario degno di un re. Era intarsiato di decorazioni romantiche e adornato di un coperchio sontuoso, e tutto si sarebbe detto del suo scopo tranne che fosse utilizzato per preparare il tè.
Quel pensiero l’aveva colto svariate volte, nel corso degli anni, mentre aspettava il tempo necessario per l’infusione, e più ci rifletteva, osservando la forma ambigua, più la macabra similitudine lo incuriosiva.
Cercò altre assonanze, meditando nell’ombra.
La preparazione aveva del passaggi da rispettare, per lui fondamentali: mentre l’acqua arrivava ad ebollizione, gli piaceva sentire il profumo delle foglie essiccate dalle quali sarebbe stato estratto l’infuso. Sembravano arrostite, emanavano lo stesso odore della foresta fuori dalla sua porta, quando il ghiaccio la ricopriva e dai camini fuoriusciva l’odore dei ceppi bruciati.
Ne prendeva un pizzico e l’adagiava nel palmo della mano, pigiando col polpastrello riducendole in polvere. Curiosamente, sembrava cenere.
Tenne per sé la singolare scoperta, fino a quando sua moglie, unica compagna della sua esistenza, venne a mancare improvvisamente.
La perdita lo provò molto.
Si sapeva che prediligesse la solitudine, e con la perdita della consorte in breve tempo divenne un eremita, solitario, chiuso nella sua casa, seduto davanti al suo samovar.
Quando giunse l’allarme di un suo conoscente, il quale aveva bussato alla sua porta più volte senza che prevenisse risposta, ci precipitammo sul luogo quando questi dichiarò di aver percepito un lezzo “pungente e nauseante”.
Forzammo la porta ma ci bastò spalancarla a metà perché quel fetore pestilenziale ci investisse: fummo costretti a coprirci il naso con le mani.
Avanzando con cautela nella casa, intrisa di un’aria tetra, raggiungemmo la stanza da dove proveniva il tanfo. Spostando con lentezza il battente, la prima cosa che riuscii a vedere furono i due samovar adagiati accanto al cadavere del vecchio.
Erano identici, l’uno l’esatta copia dell’altro, ma secondo la testimonianza del suo creatore, un noto argentiere del paese che sapeva della passione per il tè del suo cliente, c’era solo una differenza tra i due recipienti, un particolare che solo lui e il defunto proprietario conoscevano. Nessuno ne venne a capo, era impossibile distinguerli.
L’uomo venne trovato seduto sulla sua poltrona. Era morto probabilmente da molti giorni, ridotto ad un ammasso putrido e maleodorante, e mentre esaminavo la salma notai una tazza adagiata nella sua mano, scheletrica e tumefatta, dove qualche roditore aveva già affondato i denti nel tentativo di staccargli una falange. Si pensò istintivamente a una dose letale di veleno: si era tolto la vita, la perdita della moglie l’aveva privato del senno. Questo fu scritto nel rapporto.
Nella tazzina finemente decorata c’era adagiato ancora del tè, un ultimo sorso.
L’annusarono. Non sentirono alcun odore.
Guardarono all’interno dei samovar.
Trovammo le foglie di tè ridotte a una polvere sottile, e afferrandone una manciata rimasi profondamente perplesso quando il palmo della mia mano emerse macchiato di nero.

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